Ecco, sono qui al Conad neanche da un minuto e mezzo e ho voglia di piangere. Per questo clima surreale dentro al quali ci troviamo scaraventati, al quale non ero preparato (e chi lo era!) dopo appena cinque giorni chiuso in casa e dopo l’approvazione delle nuove restrizioni anti Covid-19.

Stringo i denti un attimo e mi incolonno nella fila parallela alle casse che aspetta di entrare; gli addetti alla sicurezza regolano gli ingressi tre o quattro per volta e ricordano di tenersi a distanza di sicurezza. Passo davanti al dispenser automatico del disinfettante, ne metto un po’ nelle mani, poi pulisco la barra del carrello e m’infilo i guanti del reparto ortofrutta. 

Siamo in pochi senza mascherina, in farmacia, questa sotto casa, le hanno finite e ne stanno ancora aspettando che ne riportino; molti giovani senza, ma anche qualche anziano, altri con foulard, sciarpe, fazzoletti annodati. Quelli di loro che la indossano non sembrano affatto sentirsi più sicuri, con gli occhi alla ricerca del prodotto che non hanno trovato nel solito scaffale dove credevano fosse, hanno lo sguardo di chi è stato rapito, imbavagliato e tenuto in ostaggio nell’attesa che qualcuno venga a riprenderli dopo aver pagato il riscatto. Mi sorprendo a trattenere meccanicamente il respiro, mentre ne incrocio qualcuno senza come me, una precauzione che mi sembra abbastanza inutile, ma è un riflesso indotto dal momento e per i primi minuti di questa spesa va così.

Mi muovo un po’ come se stessi danzando nel cercare di mantenere le distanze, piroette, improbabili traiettorie curvilinee, pas de deux con gli ignari compagni del corpo di ballo, vado avanti e indietro per il supermercato perché ho saltato più di una corsia con due o tre persone, ci tornerò dopo, quando sarà meno frequentata. Qualcuno sembra quasi apprezzare, magari non la coreografia, forse l’attenzione nello schivarlo e ricambia con un movimento speculare di questo paso doble fuori luogo.

Controllo quanto ho preso finora e mi chiedo se qualcuno, guardando dentro al carrello, possa pensare “guarda ‘sto fesso che fa le scorte”; poso uno dei pacchi di farina… no lo riprendo, magari sabato o domenica faccio una torta; aggiungo un barattolo di legumi, magari un contorno… no lo rimetto giù ne ho già in casa… e niente, va avanti così per un po’, una spesa fatta di gesti ripensati, rifatti, pentiti, negati e fatti di nuovo.

Ringrazio la commessa che mi porge il sacchetto col pane, ma vorrei che lo percepisse come un grazie di tutto, di esserci anche oggi con le sue otto ore di turno, forse più esposta di me che tra mezz’ora sono di nuovo a casa.

Spingo il carrello ancora più attento del solito a non urtarne altri, con le mani che iniziano a sudare dentro la plastica del guanto usa e getta, ultimo baluardo di salvezza dalla pandemia.

Alla cassa non c’è quasi nessuno, come se tutti fossimo venuti qui solo per fare un giro e vedere l’aria che tira. Allungo il braccio verso la cassiera porgendole la tessera “prendo anche due sportine” quelli portati da casa non mi basteranno, mi sa che ho preso troppa roba “‘sto fesso…“; per separarne i lembi e aprire il primo mi lecco la punta delle due dita inguantate come dovessi sfogliare una rivista… tutti gli sforzi per preservarmi dal contagio vanificati in un attimo da quel gesto…

Sarà ancora lunga, ma ne usciremo fuori. Tutto andrà bene.