sismografoStamattina dopo la scossa delle nove, dopo qualche istante ci siamo trovati con alle altre persone che erano scese in strada in mezzo alla via dove abbiamo lo studio, il pachistano scalzo e in mutande e sua moglie arrivata un attimo dopo vestita di tutto punto, i docenti e gli studenti della facoltà di economia aziendale, le due rumene del bar tabaccheria sull’angolo ed io, il primo ad arrivare in studio.

Ci si guardava tra di noi e poi intorno, verso i tetti e i cornicioni, poi verso l’inizio della strada, dalla parte dei negozi di via delle Moline, poi dall’altra, verso via Irnerio, la zona universitaria e si intravedevano le persone in strada anche lì, non era stata solo un’impressione quella scossa.
Appena arrivato ho aperto il Mac e mi sono seduto. Prendo l’agenda, cerco la penna nella borsa e mentre lo faccio sento il rombo di un camion che passa da via Capo di Lucca, mi volto verso le finestre dietro di me e non vedo nessun camion ma sento che i muri continuano a tremare, scuotono anche le finestre mentre mi prende un improvviso e forte giramento di testa che letteralmente sale dalla base del collo fino su alla calotta cranica, come se un cappuccio mi venisse tirato sul capo.
Realizzo che si tratta di una scossa di terremoto, guardo verso le volte dello studio, mi alzo e mi precipito in strada.
Ho provato a chiamare casa, Sabrina era con Jacopo a casa da scuola per via della febbre, Leonardo a scuola, ma le rete non c’era, troppo traffico, nessun contatto.
Funzionava invece twitter, viaggia su di una rete dati non la stessa del traffico telefonico mi hanno detto dopo, ma lì per lì non ci ho pensato.
Mi è venuto un po’ da piangere.
Solo un attimo, nel momento in cui mi sono reso conto che in questi casi nessuno ti può aiutare, non c’è un poliziotto che dirige il traffico, né un vigile del fuoco che accorre a indicarti la via di fuga; non ci sono perché anche loro non ci possono fare niente, forse anche loro hanno bisogno di aiuto proprio quando ne hai bisogno anche tu.
Oppure anche solo qualcuno che dice ok, adesso basta, tornate tutti in casa che l’esercitazione è finita.
Per le due ore successive mi è rimasto il mal di testa, come domenica 20, dopo la prima scossa e poi anche dopo l’altra del pomeriggio.
Ho poi sentito casa, tutto bene. Anche Leo tutto bene: li hanno fatti uscire subito e li avrebbero tenuti in cortile fino al termine delle lezioni.
Adesso il pachistano in mutande a ripensarci mi fa ridere, come mi fa ridere l’impiegato della Facoltà che è uscito di corsa con il mano il suo portatile e ho pensato che, in quei momenti, ci sarebbe stato bene pure il matto del secondo piano lì davanti, che col suo megafono rivendica puntualmente i quattro anni di soprusi patiti non si è mai capito bene da chi. Ma non si è affacciato.
Verso le 13 abbiamo replicato.
La prima scossa non l’ho sentita, ero in strada in Capo di Lucca, davanti all’egiziano che fa la pizza da asporto ad aspettare le margherite.
Uno degli astanti ha detto qualcosa nella sua lingua mimando con la mano il pavimento che si muove.
Prendo le pizze e rientro in studio che è venti metri più in là; il tempo di varcare la soglia che arriva un’altra scossa e questa si che la sento, sbandando mi appoggio allo stipite della porta e sentito chiaramente il muro tremare.
Lo studio di Capo di Lucca è dentro all’ultimo mulino del ‘400 rimasto intatto a Bologna, le mura sono circa di ottanta centimetri e ce ne vuole perché si accorgano di qualcosa che non sia davvero violento.
Richiamo casa e Jacopo con quella sua vocina di quando è ammalato mi conferma che le scosse le hanno sentite anche loro.
Passami mamma, si, eccola, uscite di lì.
Sabrina si è rifiutata; chi mi accompagna? come scendo le scale?
Ma se ti fa stare tranquillo vieni a prendere Jacopo, lo faccio scendere, io resto qui sono tranquilla, sono scosse di assestamento e basta.
Ok, Jacopo prendi le chiavi della macchina, scendi e vai in mezzo la prato, arrivo in dieci minuti, va bene babbo.
Ecco, quello è stato abbastanza difficile, pensare che possono esserci circostanze che ti impongono una scelta, un pensiero che in momenti normali scacci appena ti si affaccia alla mente, figuriamo, scegliere? ma stiamo scherzando?
E invece è così, scegli e basta.
Ho pedalato forte lungo quasi quattro chilometri della ciclabile che dal centro portano a via dell’arcobaleno.
Molta gente ancora in strada, qualche sguardo preoccupato, chi cercava di telefonare, qualche sorriso non necessariamente nervoso, d’altra parte qui non è mica successo niente, perché non sdrammatizzare.
Ho incrociato diverse auto della polizia municipale e mezzi dei vigili del fuoco, un elicottero sorvolava la zona tra l’ospedale Sant’Orsola e i viali di circonvallazione.
Arrivo sotto casa, infilo la bici al volo in cantina e vado da Jacopo che diligentemente con uno stecco tormenta un formicaio in mezzo al prato.
Ciao Poppo,  come stai? Vieni che andiamo a prendere Leo.
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Alle 23 e 38 di questa sera le notizia si fermano a 16 vittime, un disperso e una donna salvata dalle macerie dopo dodici ore passate la sotto, 14 mila sfollati e se ripenso alla mia paura, e a quella di molti altri visti qui in città, mi sento uno stupido.
Qui non è successo nulla tranne lo spavento, qualche crepa in alcuni palazzi del centro storico, piazza San Francesco transennata per via di alcune crepe nei muri della Chiesa, altre crepe tenute sotto controllo al santuario di San Luca, poco altro.
Stanotte i parchi pubblici rimarranno aperti in caso di necessità.
Tutto qui, potrei dire senza correre il rischio di sembrare riduttivo, se penso al dolore che si deve provare nel camminare da sopravvissuti alla morte dei propri cari, nelle strade del proprio paese distrutto e questa immagine mi da la misura di quanto una tragedia possa essere grande al di là nel numero delle vittime registrate alla fine delle ricerche.
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