Sto finendo di preparare la New York cheesecake mentre (tenetevi forte, state a sentire che classe) ascolto “An american in Paris” di Gershwin, che abbinamento, eh?
Ho messo il timer per i tempi di cottura, ma non servirà: sono seduto davanti al forno che la controllo a vista; sono attenzioni dovute, come merita ogni prima volta.
Mai fatta prima la cheesecake, ma sembra stia riuscendo proprio bene e la casa è invasa di profumo.
Sono tornato dall’ospedale dove è ricoverata mia moglie verso le otto, come da qualche giorno a questa parte.
Lì sta andando tutto bene, insomma, come il primario ci aveva prospettato, un intervento tranquillo, magari un po’ più complicato visto lo stato clinico di Sabrina precedente all’infortunio, però dal loro punto di vista garantiscono il risultato.
Dopo si tratterà di rimediare come si può con la terapia riabilitativa, nel corso delle due settimane (minimo) durante le quali verrà ricoverata a Villa Vallombrosa, qui nei pressi dell’Istituto Rizzoli.
Ripensavo a martedì, quando sono tornato a casa con Sabrina appena ricoverata. Non ho realizzato subito l’enormità della cosa.
Sul momento ho badato più a organizzarmi come potevo, in queste circostanze si cerca di tenere botta e fronteggiare le criticità del momento.
Mi aveva anticipato qualcosa un conoscente, dopo una sua telefonata col chirurgo che conosce al Rizzoli
“Quanto pensi che possa essere sincero con loro?”
“Quanto riterrai opportuno, ovviamente…”
E il chirurgo è stato molto sincero, nel pomeriggio quando l’ho chiamato.
“Immagino si renda conto che con un quadro clinico pregresso quale quello di sua moglie, le possibilità di recupero sono estremamente modeste…”
Si, immaginavo una cosa del genere.
Poi nella notte, che mancava poco alle tre, mi sono svegliato e mi sono reso conto che sarebbe stato molto meglio se la frattura scomposta del femore fosse capitata a me, oppure (pensate a che punto si arriva) molto meglio se fosse successo a Leonardo o Jacopo, cento volte meglio!
Che tanto uno qualunque di noi tre, in un mese, sei mesi o un anno, saremmo sicuramente tornati a camminare.
Sabrina forse non ci riuscirà.
Ho pensato all’enormità della cosa in tutti i suoi aspetti e questi, tutti quanti insieme, mi sono franati addosso nel tempo che ci ho messo a passare da un sonno profondo a un improvviso risveglio: la sedia a rotelle, qualcuno sempre con lei che l’aiuti dalla mattina alla sera, la casa da cambiare perché non ci sono gli spazi adatti per far muover una persona inferma, la difficoltà di spostarsi anche solo in maniera accettabile ovunque, in casa ma anche in giro per Bologna o in qualunque altro luogo, fare la doccia, andare in bagno, mettersi i pantaloni, aprire il cassetto più in alto o lo sportello del freezer anche solo per guardarci dentro…
E che cazzo deve fare uno, si mette a piangere e fa fatica a smettere se non per evitare il rischio di svegliare i ragazzi nella stanza accanto e i suoceri accampati sul divano in sala.
Così sono stato sveglio fino a un attimo prima che suonasse la sveglia, mi sono alzato e sono tornato all’ospedale.
Non c’ho il fisico per ‘ste cose, via.
Non c’ho il fisico né, come dire, la statura morale che ci vorrebbe per affrontarle a viso aperto, o ci si nasce o non ci si diventa, temo.
Poi non voglio stare qui a fare il piagnone, accidenti!
Però, forse un po’ come farebbero tutti in queste circostanze, ho pensato che avevamo già dato molto da questo punto di vista, non importava metterci sopra anche quest’altro carico da undici.
Mi è venuta in mente la battuta di un comico statunitense, George Carlin, letta in maniera profetica qualche giorno fa, che dice:
“Se c’è un dio, penso che le persone converranno con me che è come minimo incompetente e forse non gliene frega neanche un cazzo”.
Ci ho pensato spesso anch’io alla battuta su dio, ma… Grazie a dio sono ateo!
Un abbraccio.