IMG_2883La malattia porta con se un bagaglio fatto di dolore, principalmente, ma anche di rimprovero, di rancore, d’imbarazzo.

Alle malattie ci si abitua, costruendosi un’abito fatto di necessaria confidenza con i ritmi dettati dalle condizioni in cui si trova il malato, presi dalla necessità, che è anche necessità di sopravvivenza, di far coincidere questi ritmi con quelli di una normale vita famigliare, sveglia, colazione, tutti a scuola o a lavoro, rientro, cena, tv, tutti a letto…

Alla malattia, in altri casi, ci si oppone inconsciamente con tutta l’immobilità di cui si è capaci: si scordano le scadenze, i nomi delle medicine e gli orari a cui somministrarle, le date delle visite di controllo, gli impegni coi fisioterapisti, come si smonteranno questi maledetti poggiapiedi della carrozzina…

Spesso questi due atteggiamenti si alternano periodicamente, oppure si mischiano, così capita che un giorno sai perfettamente cosa c’è da fare, mentre il giorno dopo non ti ricordi più niente.

Un certo tipo di malattia, quella invalidante, cioè quella che rende le sue vittime persone non più valide a condurre una vita normale, non ti abbandona mai nell’arco di tutta la giornata. Questo tipo di malattia, con il passare del tempo, non solo non mostra alcun cenno di miglioramento, ma neppure di stabilizzarsi su di un livello accettabile, dove per accettabile si intende un livello al quale in ogni modo non si potrebbe sottrarsi, ma almeno non si vede peggiorare lo stato delle cose.

Ti segue giorno e notte, anzi, ti sta addosso, ti sta dentro qualunque cosa tu faccia e ovunque tu vada e sono poche davvero le parentesi che si riesce a ritagliarsi per sentirsi dentro una normalità anche solo apparente.

A volte si dice “basta! meglio sarebbe se finisse tutto qui e subito” ma immediatamente si spalanca davanti un baratro dal quale si cerca di fuggire aggrappandosi disperatamente a tutto quello che si riesce  a trovare lì per lì, ma che non è molto.

Si esclude il passato con i suoi ricordi, perché sono quello che era e che non tornerà, un passato sereno, sano in tutti i sensi, dove era ancora possibile immaginarsi un po’ tutto, progettare, sognare…non c’è niente da fare, non torna e ripensarci fa più male che bene e ti fa vedere con occhio quasi indulgente quel baratro; che sarà mai, un salto e siamo dall’altra parte, tutto finito.

Si esclude il futuro: quale futuro sembra ipotizzabile in queste condizioni?

Non c’è neppure lo spirito giusto per apprezzare quelle notizie, che nei siti di news, finiscono nella colonna di destra, di ricerche di qualche università statunitense o coreana nelle quali si sono per la prima volta sperimentati arti biomeccanici che hanno donato mobilità a chi non camminava più, destrezza da spadaccino e tatto da pianista a chi a fatica muoveva le mani.

Allora si pensa al vuoto incolmabile, ai ragazzi con una famiglia squarciata, all’organizzazione e alla logistica che risulterebbero a carico dei parenti lontani… no no, lasciamo stare…

Insomma, si tira avanti aggrappandosi a ciò che si può, ma che non è molto.

Certe volte sopra il tuo fardello, la malattia ci mette il carico da undici del precipitare degli eventi.

Una mattina ti svegli e ti accorgi che la persona che ti sta accanto fatica a sedersi da sola sul letto.

Sarà il clima, accidenti, questa pioggia che dura da settimane, freddo e umido ai primi di aprile che sarà la primavera più fredda degli ultimi cinquant’anni, scommetti?

Provi qualche passo e “piegala la gamba, dai! È l’altra che ha dei problemi, mica la sinistra” ma la gamba non da retta e continua a fare come se iniziasse a non appartenere più al resto del corpo.

Così come la mano sinistra che fatica a impugnare una forchetta, figurati a portarla alla bocca cercando di alzare tutto il peso del braccio che non collabora e tocca alla testa di abbassarsi alla ricerca del boccone.

Però chinando il collo si acuisce la fitta alla scapola che le ha dato il tormento l’altra notte.

Eh, oggi proprio non va, speriamo domani allora, dai.

Ma domani va un po’ peggio. Nessun particolare sintomo in più, in verità. È l’umore che proprio non va, ieri è stata una batosta e non ci si rimane bene.

Il giorno dopo ancora, invece, va davvero peggio dell’altro ieri e per fare quelli dieci passi, ci vogliono quasi due minuti, centoventi secondi nel corso dei quali, con una normale andatura, si potrebbero fare centodieci, cento venti passi.

Alla malattia ci si abitua, tranne i casi in cui questa sposti ogni giorno un po’ più in là i limiti che impone, così che quell’abito che si deve indossare va ogni giorno più stretto.

Vengono a galla i primi rimproveri, non mi aiuti come dovresti, non fai quello che i dottori dicono dovresti fare, vai troppo in fretta, vai troppo piano…

Si accumula il rancore per quella vita che, a causa delle circostanze, diventa di reclusione un po’ per tutti quelli della famiglia, privati di una libertà assoluta e totale di immaginarsi delle cose che invece si potrebbero fare, progettare, sognare…

Dilagano gli imbarazzi, perché a nessuno fa piacere di essere imboccati davanti ai propri figli, né ai figli piace assistere; a nessuno piace di essere accompagnati in bagno, svestite e messe a sedere sulla tazza.

Ma la malattia è fatta anche di questo, dimenticate le immagini viste in tv o al cinema: la malattia puzza e fa puzzare le persone, la pelle si secca o s’ingrassa innaturalmente, il cuoio capelluto è vittima della dermatite, l’alito finisce col farsi inquinare dai quattro medicinali diversi che ogni giorno vengono somministrati.

La sera a letto presto, un po’ di televisione per ingannare il tempo e sia lodata la televisione, indistintamente con tutti i suoi programmi, dai più stupidi ai migliori, ma che fanno passare il tempo, fanno scorrere via le ore che quasi non ci si accorge che è di nuovo l’ora di addormentarsi, che domani si ricomincia.