Per ogni nuovo ospedale in cui capita di andare in degenza c’è bisogno di un minimo di periodo di adattamento, il tempo necessario per scoprirne la geografia, conoscere le persone che ci lavorano e gli altri pazienti che qui trascorrono un po’ di tempo della loro vita.
Questo periodo è inversamente proporzionale alla quantità di ospedali visitati; maggiore è quest’ultima, più breve è il tempo necessario per ambientarsi:
Ospedale Maggiore di Bologna
Policlinico Universitario Federico II di Napoli
Ospedale Bellaria di Bologna
Ospedale Sant’Orsola – Malpighi di Bologna
Ospedale Santa Maria della Scaletta di Imola
Arcispedale Sant’Anna di Ferrara
Ospedale di Padova
Clinica di Villa Miari a Santorso, in provincia di Vicenza
Istituto Ortopedico Rizzoli di Bologna
Clinica Villa Bell’Ombra a Bologna
di nuovo il Maggiore, il Sant’Orsola, Bellaria, Napoli, Ferrara…
Geografie da mandare a memoria, che prima o poi, hai visto mai, dovesse servire ancora.
Alcuni visitati solo per poche ore, altri per interminabili settimane.
La prima conoscenza è con le strade che conducono lì.
Certe volte un tragitto molto semplice, a Bologna, per esempio, giochiamo in casa.
Altre volte più complicato, vuoi per la distanza vuoi per il traffico:
per arrivare a Santorso ci volevano quasi tre ore, oppure immaginate il traffico della tangenziale di Napoli alle otto di mattina e capirete.
Poi si deve imparare tutto sui parcheggi, interni o esterni e, rispetto a questi, dov’è situato l’ingresso principale, o ingresso all’ala, o il padiglione, la palazzina, il distaccamento…
Quantitativo di posti auto disponibili, orari di maggiore o minore affluenza (generalmente la mattina è il delirio) per quelli a pagamento vedere se c’è una cassa o ci si deve procurare un tagliando da grattare, oppure verificare eventuali possibilità alternative alla sosta a pagamento.
Al Policlinico Universitario Federico II di Napoli avevo a disposizione numerose opzioni consistenti in:
– un piccolo parcheggio esterno autorizzato, a pagamento (pochissimi posti);
– più parcheggi esterni abusivi, a pagamento (moltissimi posti).
Dopo un paio di giorni conoscevo i ragazzi che se ne occupavano, in fondo ero un ragazzo anch’io di non ancora trentadue anni; ricordo ancora la faccia stupita di Salvatore al quale, dopo avere finalmente avuto una buona notizia dal neurochirurgo, lasciai diecimila lire per aver fatto la guardia alla mia Tempra Station wagon, letteralmente buttata per tutto il giorno con due ruote sul marciapiedi di fianco a un semaforo.
– parcheggio interno all’enorme area ospedaliera, parcheggio che risultava quasi impraticabile dalla mattina presto fino al primissimo pomeriggio; ma valeva sempre la pena provarci.
Dovevo arrivare spedito fin sui Colli Aminei, per poi tuffarmi in maniera sfrontata verso uno dei due ingressi, quello più a nord, il più grande, il più difficile da controllare.
Qui venivano fermate tutte le auto che non esponevano il tagliando che li autorizzava all’ingresso.
Vigilante: “Non potete andare senza permesso, mi spiace. Dovete fare manovra qui a destra e tornate indietro, cortesemente”
entra in gioco la sfrontatezza : “ah!… sa, non sapevo, so arrivato ora da Grosseto” calcando l’accento toscano per quanto possibile: “hanno rioverato la mi moglie d’urgenza e...” mangiandomi tutte le C e cercando altre parole che ne contenessero, l’accento toscano ha sempre una gran presa nel Sud Italia e ci mancava solo dicessi “se vole le dico oa ola coll’annuccia orta orta” però, incredibilmente, il trucco spesso funzionava!
Vigilante: “Va buò passate pure, ma se non trovate posto tornate giù, non fate che vi dobbiamo portare col carro attrezzi, eh!”.
Arrivato su, dove trovavo trovavo: fatti salvi, dove possibile, i passi carrai, il resto era tutto concesso, valeva tutto.
Il pomeriggio poi il Policlinico si svuotava completamente: quasi niente macchine né scooter e tutta l’area, molto verde, enormi pini marittimi e grandi alberi di magnolia, tornava a respirare in maniera del tutto inattesa.
Andati via gli studente e con pochi parenti in visita, si apriva il campo per una gran quantità di cani, credo randagi, che gironzolavano svogliati o si affannavano intorno alle vaschette di alluminio con i resti di un pranzo, lasciate sui marciapiedi, pensiero di qualche paziente amante degli animali.
A Santorso, 800 chilometri più a nord, ai piedi dell’altipiano di Asiago, era tutto più semplice da quel punto di vista: la clinica aveva due bei parcheggi, un lungo la strada di accesso che si inerpicava dentro il parco e l’altro sul retro dell’edificio. Macchine allineate in ordine nessuno in doppia fila, marciapiedi liberi per i pedoni.
Dopo la geografia esterna si passa alla geografia interna, quella dell’architettura dell’edificio, cominciando dagli atrii, punti di riferimento essenziali, luoghi il cui aspetto varia molto da un ospedale all’altro:
ce ne sono di quelli con il bar, di fianco all’edicola-emporio che vende un po’ tutto l’occorrente per i pazienti e i parenti in visita, dai rasoio usa e getta, alle porcellane di Capodimonte per un piccolo presente al ricoverato.
Ce ne sono di altri che hanno solo una macchinetta per il caffè e un’altra per generi di conforto vari, biscotti, salatini, snack.
In alcuni di questi atrii partono numerose rampe e numerosi ascensori per i piani superiori, seminterrati e scantinati; in altri solo un ascensore capienza max 4 persone e una rampa di scale da palazzina bi familiare o poco più.
Dopo un po’ che frequento il luogo tendo a cambiare i percorsi, allungando la strada al momento di andarmene, scegliendo le scale o altri ascensori, imponendomi di farlo per sgranchire le gambe un po’ appesantite dalle lunghe ore seduto o in piedi, con gli stessi pochi passi avanti e indietro per giorni e giorni.
Oppure sperimento scorciatoie, un accesso il più veloce possibile, magari attraverso reparti confinanti.
Alcuni ospedali hanno i reparti progettati con lunghi corridoi sui quali sono allineate le camere.
Ne ho incontrati altri costruiti intorno a un cavedio centrale, sul quale si affacciano le zone operative o di servizio, mentre verso l’esterno si trovano la gran parte delle camere.
Altri ancora ricavati da edifici nati per una diversa destinazione d’uso, ne ricordo uno che in origine era un convento, con camere singole molto simili a celle da seminario vescovile.
Oppure ex alberghi dei primi del ‘900, con piccoli disimpegni sui quali si affacciano fino a tre ingressi di camere da due o tre pazienti ciascuna.
Una ex villa padronale, brutti edifici anni sessanta, ecc. ecc….
Poi si passa alla geografia fisica, la geografia delle facce di chi lavora qui e che per un tempo inizialmente indeterminato dovrà prendersi cura di te; è bene imparare a riconoscere da subito le facce dei dottori, degli infermieri, del personale di servizio; imparare a sorridere anche se non ne hai molta voglia; per rispetto per chi è lì a cercare di far guarire le persone, oppure anche fosse solo per sfida verso la malattia e il disagio o il dolore che si porta dietro…
Abbiamo incontrato sempre dottori veramente bravi, saremo stati fortunati, non lo so. Fatto sta che con Sabrina, al di là di quella che è la sua patologia, come di molte altre patologie in cui non c’è molto da inventarsi un po’ da tutti i punti di vista (se le chiamano “malattie orfane” ci sarà un motivo, no?) questi medici sono sempre riusciti in qualche modo ad alleviare il disagio, sia con la parola giusta quando serviva, sia riuscendo a maneggiare il bisturi nell’unico modo in cui era possibile farlo.
Dritti al punto quando serviva, pronti alla battuta quando ce n’era davvero bisogno.
Ne abbiamo incontrati un po’ di tutte le età e purtroppo di molti non ricordo il nome, specie degli assistenti dei vari primari.
Chissà cosa ne è adesso di quei ragazzi allora miei coetanei. Spero di cuore che abbiano realizzato delle brillanti carriere, se lo sarebbero meritato, sia loro che i loro pazienti.
Le caposala dimostrano immancabilmente una spiccata personalità, in grado di rassicurare anche nelle peggiori circostanze e sono le uniche persone alle quali poter chiedere ogni tipo d’informazione, certi fin dal primo momento che sapranno risponderti bene, sia che serva una compressa, un taxi, una pizzeria a domicilio.
Non mi sono mai chiesto perché le caposala che ho incontrato (e immagino anche voi) fossero tutte donne, cioè non so se c’è un vincolo particolare in questo senso, oppure è così per, diciamo, tradizione o propensione, non lo so. Però un caposala uomo neppure riesco a immaginarlo.
Poi gli infermieri, età mediamente bassa, figure dei quali s’imparano i tratti caratteriali e i turni con la stessa priorità d’importanza. Molti del sud, imbattibili per spirito e capacità di mettersi nei panni del paziente o dei parenti lì intorno.
Infine gli addetti alle pulizie, ultimi, non per via del ruolo, anzi: ne vedi di quelli che è un piacere starli a guardare fare il loro lavoro per quanta attenzione ci mettono. Ultimi di questo mio elenco solo perché non sono mai riuscito a vedere la stessa persona per due giorni consecutivi e faccio fatica a individuarli; non si sente quasi mai la voce di queste presenze silenziose.
La maggior parte di loro oggi sono del Magreb, qualcuno dal Pakistan, quasi tutte donne.
Finisco sempre col guardare con l’occhio incuriosito e affascinato queste donne, con i loro veli che gli coprono il capo; spesso, se non sono più giovanissime, lo sguardo basso; oppure con i capelli crespi lasciati sciolti e con le punte dei ricci decolorati di biondo o di tonalità rossicce se sono ancora delle ragazze.
Dei pazienti e dei loro cari cercherò di parlarne in un’altro post.
È un terreno minato quello.