«No piange Sabina, no piange. Cosa ti dare questo piange, butti fuori butti fuori, allora piange tutto Sabina…»
Questa è Olga, la badante Rumena di Marisa, compagna di stanza di Sabrina a Villa Bellombra.
Marisa è qui da un paio di settimane.
Appena arrivata si scambiarono le solite parole di circostanza, i nomi, le cause del ricovero, le famiglie… dopo tre giorni dal ricovero era già in un altro mondo, lontano, dove io divento Fabio, suo figlio, oppure un infermiere al quale chiedere di rimettere a posto il letto che disfa in continuazione per decine di volte al giorno.
«Non piangere cara, domani vado a casa, non hai motivo di piangere, Fabio diglielo anche te di non piangere…» questa è Marisa.
«Marisa ha ragione, Sabrina, non piangere più dai…» questo sono io Rudy/Fabio che poi a bassa voce, per non farmi sentire da Marisa che non voglio ci resti male «...che però se non ti riesce di fermarti, non fa niente, piangi quanto vuoi...»
Sabrina sta così da ieri. Credo dipenda dal fine settimana, due giorni vuoti dove non c’è altro da fare se non guardare la tv o fuori dalla finestra questo maggio che piove più o meno tutti i giorni.
Si sta avvicinando il giorno delle dimissioni, sarà venerdì prossimo, e dopo quarantotto giorni di ospedale non ce la fa più.
Questo è un mondo parallelo, abitato spesso da persone che, come Marisa, ne fanno parte a pieno titolo e in cui gli altri, quelli cioè che del mondo reale conservano ancora il pieno equilibrio mentale, si ritrovano a camminare sulla sottilissima linea che separa la ragione dalla pazzia ed è un’impresa non rimanerne invischiati neanche un po’, e non c’è da sorprendersi se uno si mette a piangere il venerdì sera e smette il lunedì mattina.
Non trovo un altro termine, se non pazzia, per definire lo stato di queste persone, e un po’ me ne vergogno, anche se non lo faccio con cattiveria, disprezzo o fastidio. Davvero no…
Forse si tratta solo di un passeggero stato confusionale, oppure un delicato equilibrio psichico turbato da qualche strano fattore esterno, forse invece è l’alzheimer, non lo so… però il risultato non cambia: io divento Fabio e come un infermiere corro a chiamare i colleghi perché Marisa si strappa il pannolone appena finito di fare la cacca.
«Cara, hai mangiato qualcosa? Non piangere e mangia qualcosa. Fabio non andare via senza avvertirmi che devo prepararmi»
Sabrina non si rende conto di come possa essere finita in questa clinica, per la seconda volta nel giro di cinque mesi, anche se per cause diverse, ma che nella mente di ognuno di noi, lei per prima, ha finito col creare questo continuum che va avanti da metà novembre ad oggi. Non si capacita.
Pensa al pranzo di Pasqua a casa e subito dopo era all’ospedale Bellaria, appena operata.
«…non ho mai avuto il mal di testa fortissimo delle altre volte, non capisco come sia possibile, e dalla sera alla mattina mi sono ritrovata in ospedale per farmi operare e adesso a fatica cammino e le mani...le mani e le gambe…» non finisce le frasi, provo a darle da bere, le allungo il fazzoletto, l’abbraccio e le carezzo la testa che è appena reduce dall’incontro di stamattina con la parrucchiera; le ha fatto un taglio cortissimo, ma le sta bene e non da l’idea di una scelta obbligata, quanto di una volontà di un cambiamento radicale.
Adesso quella solitaria ciocca di capelli ingrigiti che si nascondeva sula fronte tra gli altri capelli, fa la figura di una spruzzata d’argento audacemente schizzata lì sopra; ne ho visti tanti l’altro giorno, a scuola da Leonardo, di capelli tagliati e colorati così, o di verde o di fucsia…
«…non so più capace di fare niente, come vado in bagno? come mangio? come bevo?…»
«Non lo so Sabrina…» io non so mai niente, è proprio vero, cazzo «…ma vedrai che in qualche modo facciamo. Intanto sarai a casa tua e già questo aiuterà parecchio, vedrai…»
“Sabina vedi che ci hai due belli figli, uno bravo marito, non piange, ti prego…» e piange anche Olga, mentre dice di smettere a Sabrina.
Si china su di lei e c’è questa scena in cui Sabrina, messa sulla sedia a rotelle, da una parte ha me, che da seduto sul letto le cingo le spalle e le carezzo una mano, mentre dall’altra parte Olga, che le carezza la testa e le bacia una guancia
«Fabio, se chiamano rispondi però, eh…»
«Si Marisa, se chiamano rispondo» Marisa, per favore, ti pare il momento?
«Marisa! No è Fabio. Fabio tuo figlio, lui marito di Sabina!»
Chiama sul cellulare mia suocera, lo dico a Sabrina, ma lei singhiozzando mi fa capire che proprio non ce la fa a parlarci.
Così mando un messaggio a Gioia “TI RICHIAMO PIÙ TARDI, SERATACCIA, SCUSA…”
Non immagino cosa possono essere quarantotto giorni di ospedale per chi è ricoverato.
Cosa si fa tutto il giorno? A parte le due ore di terapia, una al mattino e una la pomeriggio, il pranzo e la cena, cosa si fa tutto il giorno?
Niente se non guardare la tv o fuori dalla finestra, appunto.
Si pensa, si pensa e si ripensa e si crea una propria realtà parallela a quella che scorre all’esterno da quelle mura.
Non immagino cosa possono essere quarantotto giorni di ospedale per chi è cosciente che, una volta fuori da qui, la propria vita non cambierà poi molto, perché andrà bene tornarsene a casa, sarà bellissimo, ma la gioia durerà poco, perché presto ci si scontrerà con la realtà dei fatti.
«Usciamo un po’ dai, tanto non hai voglia di mangiare, tanto è un piatto freddo, semmai ti aiuto a mangiare più tardi…»
«A quest’ora non vogliono che si esca…» continuano le lacrime «…vanno su e giù in ascensore coi carrelli dei pasti e gli stiamo tra i piedi, non vogliono…»
«Senti, tu hai bisogno di uscire, se ci dicono qualcosa usciamo lo stesso e che la facciano poco lunga, ok?» in certi casi, in maniera del tutto insospettabile, divento un mastino e non ci sono cristi che tengano: ha bisogno di uscire per distrarsi e usciremo, punto.
Vorrebbe venire con noi anche Marisa e già si è scoperta e fa per scavalcare con una gamba la sponda metallica che la contiene nel suo letto. Olga la ferma, in maniera un po’ brusca, ma anche amorevolmente; sta ancora tirando su col naso e ha gli occhi gonfi.
Magari pensa ai figli e al marito lasciati in Romania e che non vede dall’agosto scorso, anche loro come fossero in un altro mondo…
Poi c’è l’altro mondo di Sabrina, quello che troverà tornando a casa, quel mondo fatto di assistenza, di altre visite e medicinali, di limiti insuperabili e altri con i quali misurarsi ora per ora, con la speranza, forse mal riposta, che non s’ingigantiscano giorno dopo giorno.
Domani devo riattivare tutti i contatti in previsione delle dimissioni di Sabrina:
con il poliambulatorio che la seguirà per la riabilitazione a casa;
con i servizi sociali che, per la prima volta da diciassette anni, mi danno la fiducia di saper come muoversi in queste circostanze; sarà un fatto di sensazione a pelle, però Maddalena mi sembra sappia il fatto suo.
Dovrò chiamare il terapista che compenserà quello che l‘Ausl non riuscirà a fare e dovrò chiamare anche la proprietaria dell’appartamento qui vicino, in cui per i prossimi due mesi i miei suoceri verranno ad abitare.
Chi altro? Si, il professore del Bellaria che dovrà visitare Sabrina per valutare la spasticità degli arti superiori e farle la terapia di botulino, che non serve solo per dare alle labbra un aspetto più turgido e giovanile, quanto per ridurre l’ipertono muscolare, in questo caso…
Poi cos’altro? Mi sembra tutto.
Domani sera ho la prima lezione di un corso al quale mi sono iscritto e dopo, appena a casa, vado a correre.
Non credo più a niente e a nessuno (vedete che imparo?) tranne al potere che ha la corsa di scaricare le tossine e sgombrare la mente.
Anche questo è un altro mondo…