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«Corri Nino, corri!» gli gridava sua nonna, indifferentemente per impaurirlo se doveva sgridarlo, oppure per spronarlo.
E lui via, correva, lui che la corsa gli aveva salvato la vita già almeno due volte:
UNO: quando quei tre tipi, poco più grandi di lui, decisero che avrebbero potuto tranquillamente ucciderlo, che tanto nessuno si sarebbe accorto o ne avrebbe avvertito la mancanza;
DUE: quando morì sua nonna, che scappò più lontano che poteva, più veloce di quanto avesse mai desiderato correre, più veloce della morte che se l’era portata via, di corsa per andare lontano il più possibile da tutto quel dolore.
Un’altra volta ancora
TRE: molti anni dopo, quando quello che aveva creduto essere amore, decise che avrebbe potuto tranquillamente ucciderlo, lasciandolo di fianco a un semaforo, in mezzo al traffico freddo di gennaio.

Non correva da professionista, correva come se quello da battere fosse solo se stesso, non gli avversari, non il cronometro. Correva per bisogno, spesso per scappare dalla paura, correva forte come quelle poche volte che gli capitava di scappare dalla felicità, che in dosi massicce gli faceva peggio che meglio, specie a chi, come lui, non era abituato e anche ad averne solo un pizzico di felicità per lui quella era già una dose imponente.
Non importava verso dove scappare, importava solo scappare lontano, quello che contava era quello, la distanza; non lontano da cosa o da chi, che se lo incontrava di nuovo (ammesso che lo avesse riconosciuto) sapeva già di dover darsela a gambe, l’importante era scappare e mettersi in salvo. O almeno provarci.

Vigliacco! La fuga non ha onore, la fuga è senza dignità!
E allora, se credete così, ditelo voi a quel ragazzetto, provateci voi a convincere quei trentacinque chili di pelle e ossa, troppo alto per sembrare piccolo, troppo piccolo per sentirsi in grado di affrontare la vita, che non si scappa davanti alla paura dei guai, quei guai che si era andato a cercare o i guai che lo avevano trovato lo stesso anche anche se lui non c’entrava niente.
Scappare dal proprietario delle ciliegie appena rubate.
Scappare dalle guardie.
Scappare dai più grandi che lo volevano menare.
Scappare da un giudizio immeritato.
Scappare da quella madre sempre presente ma molto distante.
Scappare da quel padre molto distante e quasi mai presente.
Scappare inseguito dal fratello.
«Corri Nino, corri!»…

Voltarsi e scappare dai cani che gli correvano incontro, per finire dopo pochi passi in mezzo al filo spinato, lasciato dai suoi zii contadini proprio lì in mezzo, lì dove invece avrebbe dovuto esserci una via di fuga, accidenti! Era davvero piccolo allora, tutte quelle spine piantate nelle gambe (che dovettero impegnarsi in tre per tirarlo fuori) avrebbero potuto fargli capire fin d’allora, se solo avesse avuto gli strumenti necessari per farlo, quanto fiato e quante gambe avrebbe dovuto allenare per gli anni a venire.

E poi la scuola, con le classi, i banchi, i buoni e i cattivi, i bravi e i somari, belli e brutti, benestanti e poveracci, tutta quella fatica per imparare a stare dentro le righe tracciate, tutta quella fatica per doverci restare e proprio quando aveva imparato, proprio non appena gli insegnanti si erano accorti che, si, che quel ragazzetto, tutto sommato, non era poi male, anzi, quasi quasi era in gamba… ecco che la scuola finiva e si ritrovò a dover imparare a stare nel mondo dei grandi.

Sempre un nuovo inizio, dopo che si era detto per giorni o per anni che “è così bello che non può durare”. E infatti non durava mai e via di nuovo di corsa, improvvisamente da un momento all’altro, quasi mai senza un preavviso, un segnale qualsiasi, un colpo di pistola ai blocchi di partenza…

Chi l’ha detto che sul luogo del delitto ci tornano solo gli assassini.
Lo fanno anche le vittime, quando sopravvivono; e così fece lui, che dopo anni iniziò a riappropriarsi dei luoghi che erano stati suoi e  nei quali gli assassini lo avevano umiliato, cacciato e poi ucciso, strade, piazze, bar, librerie, ascensori di grandi magazzini, giardini, parcheggi. Circospetto le prime volte, sempre più sfrontato poi, sicuro delle proprie gambe e della reattività dei tendini, dopo tanto allenamento.

Chi l’ha detto che non si scappa da se stessi.
Lui ci riusciva così bene che spesso finiva col sembrare un altro, anzi, diventava un altro!
Circostanze in cui non era più necessario schiacciare così forte il piede sul gas: piazzato in mezzo la strada, tirava il freno a mano, petto in fuori e schiena dritta, sguardi volutamente pigri e indolenti lanciati intorno a sondare l’ambiente e i passanti, incurante di dubbi e certezze, con un’ombra di sorriso. Semplicemente restava fermo, con la certezza che niente e nessuno avrebbe potuto sfiorarlo, “noli me tangere”, fermo al centro di quel mondo cristallizzato al suo comando, fermato al suo fermarsi, padrone del tempo e del moto circostante, bambini che sembravano muoversi alla moviola, borse della spesa improvvisamente lievi che era come se fluttuassero, biciclette e scooter impegnati in un improbabile surplace urbano.
Poi di nuovo lo scatto di quel suo meccanismo interno, uno sguardo dall’altro lato della strada che lo trafiggeva, click! e via. Così, un istante prima che il mondo si rimettesse in moto, lui era già scappato un’altra volta, a larghe falcate, per riuscire a mettere tra se e quegli occhi la maggior distanza possibile.

Corri Nino, corri!click! e lui via, correva, lui che la corsa gli aveva salvato la vita già tre volte e avrebbe continuato a salvarlo per sempre.

 

La foto è tratta da “Io non ho paura” 2003, diretto da Gabriele Salvatores