caduta massiPoi dopo un po’ che ho imboccato una di quelle strade che s’inerpicano in montagna, o di quelle addossate a un crinale, lungo di un rilievo appena accennato, di lato mi trovo quell’inutile avviso che mi avverte dell’ineluttabile: caduta massi.

Mi scanso? Mi fermo? Torno indietro?…
Da lì devo passare, non posso fare inversione perché la strada è troppo stretta, da un lato il crinale, con l’eventualità che rotolino giù delle pietre, se lo hanno scritto…, dall’altro il dirupo e il concreto rischio di precipitarci.
La macchina non ha la retromarcia, non sono neppure io a guidare, sono immobilizzato al sedile del passeggero, la portiera è bloccata ma anche se non lo fosse ho mani e piedi legati, che me ne faccio dell’avvertimento che passando di lì potrei prendermi dei massi sulla testa?
Vorrei superare quel tratto di strada il più in fretta possibile, ma il pedale del gas va come vuole, il cambio è automatico e dipendente solo dalla volontà del motore che ho sotto culo o chissà che. Allora, come se davvero potesse servire a qualcosa, senza troppa convinzione, incasso la testa tra le spalle, chiudo gli occhi, serro i denti così forte che li sento stridere tra di loro e che Dio me la mandi buona…

Mi sono svegliato intorpidito come avessi passato tutta la notte legato a una sedia.
Un po’ di risveglio muscolare da seduto sul letto; arriva la gatta a dare il buongiorno strusciandosi contro i polpacci e inizia questo venerdì.

Prepararsi al peggio può significare tante cose.
Può significare, appunto, serrare le mascelle nell’attesa dell’urto, nel tentativo di attutire l’attimo dell’impatto, o per schivare il colpo, con uno scatto all’ultimo istante, così da evitare quel peggio in arrivo, un pugno in faccia, una caduta dalle scale, un’auto contromano.

Prepararsi al peggio può significare frequenti esercitazioni durante le quali valutare la propria capacità di reazione agli eventi, seguire il raziocinio che impone di restare calmi, tutti ordinati in fila indiana, affinare l’istinto che consente in un lampo d’infilare le scale per sfuggire all’allarme antincendio, assecondare l’innata capacità dei leader che consente loro di prendere in mano la situazione e con essa i destini degli altri, fino a portarli in salvo.

Prepararsi al peggio può significare tenere conto di tutti quei piccoli o grandi segnali di attenzione che ci si presentano quotidianamente con tutta la loro evidenza.
Li osservo un po’ stupito con sospetto “perché questa cosa? cosa significa?”. Li incasello tutti quanti e come in un addizione la somma che tiro mi da l’idea di cosa potrà accadere, darmi la misura di ciò a cui andrò incontro.

Ma quello che credevo fosse un “andarle incontro” spesso si trasforma in un “venirmi addosso” e hai voglia ad aver fatto tesoro degli avvisi, non c’è verso di riuscire a restare in piedi, l’onda mi spazza via e non ho braccia sufficienti per aggrapparmi a maniglie, mobili, infissi, al cuscino del divano; l’onda mi trascina tra le capriole, un male da morire al gomito sbattuto contro uno spigolo, litri d’acqua inghiottiti e quella voglia sempre più forte di lasciarmi andare.

Poi capisco che devo oppormi in qualche modo, che non può averla vinta, almeno non su tutta la linea, e inizio a seguire la corrente assecondandola invece di contrastarla.
Razionalizzare, ecco cosa…

Solo che più tempo passa da quando ho ricevuto l’ultimo segnale di avviso, e peggio mi faccio trovare pronto. Si perché un continuo stato di allarme, alla lunga, è come se non ci fosse più allarme, non sento più i bip bip proveniente dal monitor, diventa rumore di fondo, diventa la quotidianità, non c’è più bisogno di scomodare continuamente il lupo.
E invece la bestia è lì in agguato e non fa differenza se ho deposto le armi, o se mi ero distratto dietro a un altro pensiero, oppure semplicemente mi sono voltato per un solo istante dall’altra parte; quella, la bestia, salta alla gola.

Prepararsi al peggio significa anche pensare a tutti quelli che sono vicini ma che al peggio non possono prepararsi; questo, forse, perché non hanno ancora gli strumenti che solo l’aver vissuto abbastanza a lungo può fornire, oppure non hanno nessun motivo di aspettarsi qualcosa di brutto; abitano lontano, non possono essere a conoscenza degli eventi o quegli eventi non li vogliono conoscere perché certe cose fanno paura ed è giusto che chi può se ne stia alla larga più che può, giuro che li capisco, hanno tutta la mia comprensione; e poi ancora altri mille motivi…
Allora m’immagino il modo in cui mi presenterò davanti a tutti loro e le parole che potrò o saprò scegliere per raccontare l’accaduto, sperando che basti uno sguardo (e che ci sia la possibilità di scambiarsi uno sguardo!) affinché capiscano al volo, perché certi stati d’animo, certi sentimenti non li puoi raccontare e davvero a volte gli occhi parlano, aiutati da una smorfia della bocca, qualcosa di simile a un vago accenno di sorriso imbarazzato per cercare di smussare il disagio altrui.
E che Dio ce la mandi buona.