La prima volta, e anche l’unica, che sono stato qui fu diciannove anni fa con il mio amico Claudio, invitati da una nostra collega, Rita, a pranzo a casa dei suoi che abitavano qui.
Ricordo ancora la strada che costeggia il canale Navile con le sue chiuse gestite dal “Consorzio della bonifica Renana”, poi l’incrocio, con a destra il castello della fine del ‘400, a sinistra la via principale che attraversa il piccolo centro con la sua architettura neo gotica. Svolto in quella direzione, passo davanti all’ospedale e subito dopo arrivo alla mia meta, l’Hospice Bentivoglio.
Gli alberi che separano le file dei parcheggi non sono sufficienti a riparare dal sole, con la loro ombra di mezzogiorno. Mi guardo intorno: a sinistra le ultime case del centro abitato, a destra “la Bassa” separata da Bologna dalla Strada provinciale “trasversale di pianura”.
Il caldo non scoraggia il canto degli uccellini che sottolineano come questo luogo sia immerso nel verde. Un verde fatto di prati e aiuole ben curati, siepi basse fresche di potatura, alberi dalle chiome composte; nei miei occhi, per un istante, l’immagine del paesaggio innevato si sostituisce a questo inizio giugno, un’unica traccia di pneumatici sulla neve fresca, nessun suono tranne lo scricchiolio dei miei passi. Un attimo e la neve si dissolve al sole ed e di nuovo oggi.
L’Hospice fa parte del Campus Bentivoglio, il primo centro in Europa per le cure palliative; è qui che ha sede l’Accademia delle Scienze di Medicina Palliativa, costituita, si legge nel sito“…per favorire la condivisione di contenuti e di conoscenze tra gli ospiti, i discenti e gli operatori sanitari, promuovendo la formazione di nuovi e preparati professionisti delle cure palliative…”.
È un edificio basso con tre ingressi, uno principale per gli ospiti, verso il quale mi avvio, e altri due suggeriti dalle indicazioni, uno per le ambulanze e l’altro per carico e scarico merci. La porta automatica mi accoglie con il piacevole fresco condizionato che arriva dalla reception; due persone stanno parlando a bassa voce con l’addetta, sorridono tra di loro, così proseguo fino a raggiungere il centro della costruzione; colori tenui, legno, luce soffusa, appena schermata, che proviene dall’alto, molto curato; tutto parla di un’ottima manutenzione nel corso di questi quasi tre anni trascorsi dal giorno dell’apertura.
Dal corpo centrale si diramano i cinque bracci nei quali sono distribuite le camere per le degenze e le altre necessità, che danno alla pianta la forma di un grande asterisco.
Un banco circolare ospita alcune postazioni alle quali siede del personale in divisa azzurra o bianca; da qui, sorridendo, si alza per venirmi incontro il responsabile del personale infermieristico, Marco, che ho sentito ieri al telefono per richiedere questo incontro.
Mi dice di come non sia la prassi comune quella di far visitare la struttura; solitamente viene presentata una richiesta di valutazione pre-ricovero da parte di un medico, la richiesta viene valutata dal Responsabile della rete delle cure palliative che decide l’inserimento del paziente nella lista d’attesa unica provinciale. Dopo di che il paziente e il familiare di riferimento sono invitati per un colloquio con un responsabile della struttura, il quale si accerta delle necessità del paziente e spiega le modalità di assistenza praticate nell’Hospice…
Ma ormai sono così abituato alla frequentazione di prassi poco o per niente comuni, che mi meraviglierei del contrario; e d’altra parte capita che appena nomino la sindrome con cui abbiamo a che fare, questa sembra funzionare magicamente da “apriti Sesamo” e quello che non è la prassi diventa subito possibile.
Le camere sono grandi, con grandi finestre e un’accesso al patio che si affaccia sul giardino; con due letti, uno per il degente e l’altro per chi vuole trascorrere qui la notte, bagno, tv, aria condizionata, frigo, rete wireless, telefono. Nei corridoi ci sono bagni dotati di grandi vasche nelle quali, anche chi è infermo del tutto, può godere del piacere di un bagno, pratica non così comune in molte circostanze.
Marco parla quasi sottovoce, con il tono consapevole di chi ha già affrontato decine di pazienti e i loro parenti alle prese con quella che forse era una delle prove più difficili della loro vita. Ascolta cosa gli racconto di noi, mi chiede dell’età dei ragazzi, mi informa che, una volta fatta la richiesta, se sussistono tutte le condizioni, il paziente viene accolto nel giro di una settimana dieci giorni al massimo. Mi saluta con un in bocca al lupo, accompagnato da un gesto della mano sulla mia spalla e mi ricorda che se ho ancora bisogno posso chiamare quando voglio.
Torno verso il parcheggio col caldo che inizia davvero a farsi sentire.
Sbottono la camicia per cercare un po’ di sollievo in quel tratto assolato di si e no cinquanta metri.
Poi la tolgo e resto in maniche corte, fermo in mezzo al vialetto con le mani sui fianchi.
Mi volto verso l’edificio e sull’idea di questa Bassa Padana “…questa spianata di sole che strozza la gola alle rane…” mi sale qualcosa dallo stomaco, mi afferra il cuore e lo stringe in un pugno che strozza il respiro pure a me e penso che non vorrei mai che nessuno dei miei cari finisse qui il proprio viaggio, in questo bel posto, perché è bello davvero questo luogo, si respira rispetto e amore e cura e attenzione e, in fine dei conti, è poco distante da qua che abbiamo ormai trascorso la maggior parte delle nostre vite vissute fin qui, in una terra che ho finito con l’amare, abitata da gente meravigliosa, ma che piuttosto vorrei prendere una casa affacciata sul mare per poterci trasferire lì per quel che resta da fare… un pensiero ingenuo e romantico, ho pensato, da sceneggiatura cinematografica, che si è sciolto come la neve di poco fa, evaporato in mezzo secondo in mezzo al calore dei trentaquattro gradi delle 12.40.