Sono appena arrivato all’Hospice Bentivoglio.
Siamo entrati qui solo martedì pomeriggio, ma il tempo ha subito una tale dilatazione, che ho la sensazione che siano trascorse settimane, forse per via dei frequenti avanti e indietro, forse per le fortissime emozioni che hanno amplificato anche la minima cosa che capitava rendendola gigantesca, non so…
La mattina è iniziata con la visita all’agenzia di onoranze funebri, dove ho portato i vestiti scelti per Sabrina. Uno degli aspetti che non avevo considerato, dover scegliere cosa farle indossare.
Avevo in mente cosa e mi sono messo a cercare, ma non sono riuscito a trovarlo; però ne ho visto un altro che non ricordavo e che le piaceva molto, un vestito leggero, estivo, con delle rose.
Per le scarpe ho pensato a quelle che indossò per il matrimonio, le conservava ancora da qualche parte; le ho trovate, ma poi ho preferito dei sandali, anche quelli so le piacevano molto, semplici, in cuoio, un tacco appena accennato. L’abbigliamento per un aperitivo d’estate.
La strada che porta qua scorre a tratti lungo dei grandi campi di grano che non è ancora stato tagliato. Mi sono fermato lungo uno di questi e ho colto qualche spiga; mi era sembrata una bella cosa, il grano ha tanti significati.
La camera mortuaria è bellissima, come del resto tutto il resto dell’hospice, sembra la club house di un circolo del golf. La struttura in acciaio con delle grandi vetrate a tutta altezza, parquet, parti bianche e panche in vetro satinato, tutto intorno verde e una delimitazione di ghiaia, sagomata in una forma curvilinea, a ridosso delle pareti esterne.
Sono entrato nella stanza dov’è Sabrina solo il tempo di poggiarle tra le mani le spighe di grano, non ce l’ho fatta di più e non ci tornerò un’altra volta. Mi faccio forte del pensiero che maturai quando se ne andò nonna Jolanda: quel corpo in quel letto non era più lei, era solo l’involucro che le era appartenuto, ma che adesso non la rappresentava più, lei era altrove, così come Sabrina, da venerdì sera, è altrove. E neppure voglio dirmi che è qui accanto che ci guarda; anche qui, si, piuttosto sarà dove le pare di andare, sotto la forma che avrà preferito assumere, un profumo, una stella, un chicco di grano… come ha detto la figlia dolcissima di una mia dolcissima amica, citando Platone “sarà ritornata ad essere un’idea”.
“Sono il babbo di Leonardo, è lì con te? Dove siete? devo venire lì a prenderlo. Non dire niente che ti ho scritto. Grazie”
Venerdì sera, dopo essere corso qui, una volta raggiunto da Gioia, Bruno e Carlotta, dovevo andare da Leonardo. Ho scritto quel messaggio a un suo amico, del quale avevo il numero per caso dallo scorso anno quando andarono a Barcellona.
“Siamo in piazza Aldrovandi non ci allontaniamo, lo tengo qui con una scusa”
Ho parcheggiato davanti all’agenzia Unicredit dove una moltitudine di ragazzi chiacchierava; ho cercato con lo sguardo fino a incrociare lo sguardo di Toffe che mi ha indicato Leo. l’ho chiamato
“Ohi babbo, che giri qui?”
“…”
“No… no dai…”
“…” L’ho abbracciato e tenuto stretto per qualche secondo
“Saluto gli altri…” ho fatto un cenno a Toffe dicendo grazie; siamo saliti in macchina ed è scoppiato a piangere prendendomi una mano.
Un’ora prima parlavo con una delle infermiere
“Io non ce la faccio a chiamarli, se li chiamo mi chiedono come sta, così successo. E cosa gli dico, no dai…”
“Ci pensiamo noi, non si preoccupi di questo”
Gioia e Bruno hanno parcheggiato davanti la pensilina dell’ingresso, gli sono andato incontro.
“Cos’è successo”
“…”
“Cos’è successo! come sta…”
“Gioia…”
L’ho abbracciata sovrastando il suo metro e sessanta scarso con il mio metro e quasi novanta, cercando di tenerla tutta, di farcela stare tutta quanta tra le braccia e il petto, carezzandole la testa. Bruno ha imprecato qualcosa e si è stretto a lei che era stretta a me.
Una volta tutti insieme, siamo rimasti fuori dall’ingresso, cambiando di posizione ogni tanto, ora seduti ora in piedi, togliendoci e rimettendoci una felpa, bevendo un sorso d’acqua. Poche parole, ma che c’era da dire?
A Jacopo, che era a Massa dai miei, ci hanno pensato Loredana e Camilla. Lo hanno tenuto circondato di affetto e d’attenzioni e sabato mattina lo hanno accompagnato qui. La scena è stata più o meno la stessa, mentre parcheggiavano si è messo a piangere guardandomi da dietro il finestrino. Ci siamo incamminati tenendoci stretti verso Leonardo ed è stato bellissimo restare un po’ lì tutti e tre insieme.
Sabato abbiamo ricevuto così tanti messaggi da così tante persone che siete riusciti a darci conforto, che se il dolore non se ne va, il piacere di leggere le vostre parole ci ha fatti sentire almeno un po’ meglio, e mi ha fatto pensare che non è vero che in certi momenti non ci sono parole, ne avete trovate tante e di bellissime.
Una telefonata, in particolare, mi è servita molto, come mi sta servendo molto questo messaggio:
“Sono sicuro che lei ti parlerebbero come da un estratto di Henry Scott Holland:
La morte non è niente.
Sono solamente passato dall’altra parte: è come fossi nascosto nella stanza accanto. Io sono sempre io e tu sei sempre tu.
Quello che eravamo prima l’uno per l’altro lo siamo ancora.
Chiamami con il nome che mi hai sempre dato, che ti è familiare; parlami nello stesso modo affettuoso che hai sempre usato. Non cambiare tono di voce, non assumere un’aria solenne o triste.
Continua a ridere di quello che ci faceva ridere, di quelle piccole cose che tanto ci piacevano quando eravamo insieme.
Prega, sorridi, pensami!
Il mio nome sia sempre la parola familiare di prima: pronuncialo senza la minima traccia d’ombra o di tristezza.
La nostra vita conserva tutto il significato che ha sempre avuto: è la stessa di prima, c’è una continuità che non si spezza.
Perché dovrei essere fuori dai tuoi pensieri e dalla tua mente, solo perché sono fuori dalla tua vista? Non sono lontano, sono dall’altra parte, proprio dietro l’angolo.
Rassicurati, va tutto bene.
Ritroverai il mio cuore, ne ritroverai la tenerezza purificata.
Asciuga le tue lacrime e non piangere, se mi ami: il tuo sorriso è la mia pace.”