Siamo arrivati lì che erano poco prima delle tre di notte, svegliati nel sonno da mamma:

Rudi, Scusami, era zia al telefono, ha chiamato il pronto soccorso: c’è zio che sta male.

Zio era sulla sua poltrona, col saturimetro al dito, ci ha fatto un cenno di saluto, zia accanto che gli misurava la pressione.

Non sapevo cosa fare, non mi rispondeva più, che paura che ho avuto a vederlo così… gli ho aumentato l’ossigeno e m’è sembrato che andasse meglio, ma ho chiamo il 118 lo stesso…

È arrivata l’ambulanza e il medico, aiutata dalla descrizione di zia, ha subito inquadrato la situazione e dato le disposizioni all’equipaggio; hanno trafficato un po’ con la strumentazione, presi i parametri, parlato con zio per capire quanto fosse in grado di reagire, oltre al suo primo “perché tutta questa gente?” pronunciato appena li ha visti entrare.

Adesso Franchino le togliamo un attimo l’ossigeno per darle un po’ di aerosol, va bene? È questione di un attimo…” zio ha assentito con un cenno del capo, è stato questione di un attimo, il tempo di sostituire i tubicini che gli inalavano ossigeno attraverso le narici, con quelli dell’aerosol, ma è stato immediato anche il suo mancargli il respiro, improvviso come se qualcuno gli avesse tappato naso e bocca; ha iniziato ad agitarsi muovendosi convulsamente per quanto gli consentiva la debolezza accumulata nei giorni precedenti.

Aiutateci a tenerlo!” io che gli stavo reggendo la mano gli ho preso anche il braccio, Marta cercava di trattenerlo per le spalle, mentre il personale del 118 armeggiava per rimettergli l’ossigeno e fermargli le gambe, il medico cercava una vena per iniettargli non so bene cosa, a fatica perché non trovava.

Per un attimo ho incrociato i suoi occhi che si giravano indietro mentre spingeva la testa contro lo schienale. I comandi concitati del medico che ordinava cosa fare ai ragazzi con lei, qualche secondo, forse un minuto poco più e tutto è sembra tornare alla normalità, la chiusura di una scena da film, respiro meno affannoso, pulsazioni che si intuivano meno frequenti solo guardando il torace che non si gonfiava più esageratamente come un attimo fa. Zia di là nell’altra stanza, con babbo che nel frattempo era arrivato e l’aveva quasi spinta lontana da quella poltrona.

Signora, la situazione è estremamente grave, dobbiamo portarlo in ospedale e non escludo che si debba poi trasferirlo a Grosseto, dobbiamo valutare una volta arrivati al pronto soccorso qui a Massa”.

Una breve sosta al pronto soccorso e poi verso l’ospedale di Grosseto. Poco prima delle 4 parlavo con uno dei medici di turno: “Non le posso nascondere che la situazione non lascia più margini di miglioramento… In questi casi si fatica sempre nel valutare il rapporto tra costo e benefici di quello che si potrebbe fare

Cosa si potrebbe fare dottore…

Possiamo provare a somministragli ancora ossigeno, per un paio di ore, e vedere come reagisce, dopo di che se non abbiamo risultati apprezzabili le strade sono due: intubarlo, però sappia che se lo intubiamo, a questa età, nelle sua situazione, difficilmente la condizione diventa poi reversibile. Altrimenti possiamo procedere alla somministrazione di un blando sedativo per accompagnarlo in modo che soffra il meno possibile…” Mi sono trovato a dover decidere per mia zia, che non era obiettivamente in grado di farlo, appellandomi a quel minimo di lucidità che le circostanze ancora mi lasciavano.

Attimo di pausa “Proviamo con l’ossigeno” voi cosa avreste risposto, con vostra zia che aspettava in macchina poco più in là, cosciente della situazione, ma ancora aggrappata alla speranza.

D’accordo, ci sentiamo tra un paio di ore

Zio ha poi superato la notte, anche brillantemente, se si considera l’avanzato stato delle fibrosi polmonare diagnosticatagli nel luglio scorso. Sono andato ad accompagnare e riprendere mia zia quasi tutti i 6 giorni che lo hanno trattenuto in pneumologia; con lui ci siamo parlati, gli ho raccontato altro per evitare di girare sempre intorno al tema della sua malattia, sulla quale ritornava sempre e non era per niente ottimista,  forse per via dell’ossigeno passato dai 2 litri (al minuto, all’ora… non lo so) fino ai 6 litri, forse per la morfina che hanno iniziato a somministrargli un paio di giorni prima di dimetterlo, forse intuendo come sarebbe andata a finire, sentendosi sempre più debole…

Lo hanno rimandato a casa mercoledì 21. Avevamo già sostituito il loro letto con due letti singoli, uno per zia e l’altro fornito dell’ASL, di quelli regolabili e con il materasso anti decubito, cercando di pianificare per quanto possibile il rientro, facendo sembrare tutto ordinato e già pronto, come se tutto fosse nella normalità delle cose. Ci siamo mossi con quell’operosa frenesia che precede sempre un’inevitabile tragedia, della quale intuiamo l’avvicinarsi, ma ci illudiamo di poter in qualche modo fronteggiare dimostrandoci ancora più reattivi e partecipi di quanto non siamo normalmente, sperando serva a qualcosa.

Nel suo sguardo degli ultimi giorni credo di averci visto tutta la sua delusione, la delusione di quell’omone di un metro e novanta che sapeva fare di tutto, non la rabbia o il dolore, tutta la sua delusione perché stava andando a finire così in fretta e non c’era più niente da poter fare, senza nemmeno il tempo per prepararsi, ammesso che ci si possa mai preparare davvero ad una cosa così, una cosa contro ogni logica come la morte; e in quel suo sguardo deluso ho visto quello che credo sarà il mio stesso guardare, quando verrà il momento, qualunque sarà il tempo concessomi per accorgermene, se ce ne sarà abbastanza.

Ho nelle orecchie il rumore del suo respiro affannato, che ormai non era più un respiro consueto fino dalle prime ore del sabato mattina; era diventato come il soffiare aria dentro un contenitore che un attimo dopo essere riempito la lascia uscire fuori, perché non è in grado di trattenerla, perché ci deve essere un foro da qualche parte, o più semplicemente come se rifiutasse quel soffio che per altri è vita. Ho pensato, come mi è già capitato di fare in altre occasioni, che zio ormai non fosse più lì e che avrei voluto avere un pulsante da schiacciare per interrompere il meccanismo che pompava ossigeno inutilmente e che se lo avessi avuto lo avrei schiacciato subito, portando a conclusione quello che, la settimana precedente a Grosseto, avevo dato il nullaosta a prolungare, forse senza averne il diritto…

Zio ci ha lasciati nella notte tra il sabato e la domenica, a cavallo del ritorno all’ora solare.

Ho vegliato buttato sulla poltrona, gli occhi chiusi e le orecchie aperte, in sottofondo il suo respiro pesante, alzandomi spesso per controllare il livello di ossigeno nella bombola, e quando non ho più sentito niente sono andato di là in camera; zia dormiva e zio se n’era andato. Ho provato un’inutile verifica col saturimetro che non ha dato alcuna risposta. Mi sono preso un minuto per lavarmi la faccia e mettermi le scarpe; poi mi sono seduto sul letto accanto a zia. È bastato prenderle la mano e carezzarle la spalla che lei ha aperto gli occhi “È andato…” “Si zia… è andato”.

Per un attimo credo di aver visto negli occhi di zia, il sollievo, quel pensiero così umano, comune e comprensibile che in fondo è stato meglio così, pensiero che però scacci subito, perché quella persona l’avresti tenuta lì con te anche in quelle condizioni, pur di averla ancora per un po’.

Due giorni dopo abbiamo accompagnato Zio Franco a Grosseto per la cremazione, seguendo quella che era la sua volontà, nessuna telefonata se non alle persone più care, annunci funebri a esequie avvenute.

P.S.: quella che vedete nella foto è Jacinda Kate Laurell Ardern, rieletta qualche giorno fa Primo Ministro della Nuova Zelanda; contemporaneamente alle elezioni si è tenuto un referendum che ha approvato l’introduzione della legge che renderà legale l’eutanasia, cioè la morte assistita in caso di gravissime condizioni di salute.