
Sono uscito dalla palazzina in Via Antonio Canova sotto una leggera pioggerella, un sospiro di sollievo per come sembra si possano mettere le cose e un po’ di commozione nell’andarsene da quegli uffici in cui ho lavorato per cinque anni dal primo aprile 2017 al trenta marzo 2022.
Ho dato le mie dimissioni a seguito della cessione del ramo di azienda (il mio, quello che si occupava di eventi) a una neonata azienda con la quale avrò un diverso rapporto di lavoro, che mi consentirà di poter fare periodicamente, a seconda delle necessità, avanti e indietro tra la Toscana e l’Emilia e ne sono contento.
In ognuna delle nostre vite ci sono degli incroci che hanno un potere insospettabile o trascurato: far cambiare i paesaggi che da quel punto in poi potremmo attraversare.
Le scuole superiori per esempio, poi il primo lavoro e il matrimonio, i figli, le gioie e i lutti, l’inizio o la fine di una storia d’amore… tutti crocevia in cui fermarsi, meditare, schiacciare il piede sul gas e partire di rincorsa oppure tornare indietro, o gettare in alto una moneta affinché sia la sorte a decidere per noi.
L’ultima volta che mi sono trovato in mezzo a un incrocio di questi è stato due anni fa, allora proprio come oggi seduto allo stesso tavolo a casa di Bologna, in cucina, in quelle suddivisioni geografica artificiale dell’appartamento in cui ognuno di noi tre, Leonardo, Jacopo ed io, avevamo finito col fare nostri alcuni spazi; eravamo in pieno lockdown, che a solo pensarci ancora ogni volta mi sale un nodo in gola e mi dicevo che la pandemia non poteva lasciare solo uno strascico di morte, dolore, divisioni, credendo di aver intravvisto, nonostante tutto, in alcuni segnali un po’ di speranza per un cambiamento:
“…Il paradigma che abbiamo seguito finora non potrà più essere il modello di riferimento ritenuto valido fino a due settimana fa. L’emergenza, pur nella sua drammaticità, ci ha messo davanti la possibilità di fare delle scelte, tra un prima e un dopo il Coronavirus…” questo quello che scrivevo (se vorrete vedere il resto lo trovate qui: https://rudyrenzi.com/2020/03/20/acqua-cielo-azzurro-e-delfini/) e questo è quello che mi è accaduto: alla fine del lockdown, sono partito per Massa Marittima e da allora in poi sono ritornato a Bologna solo per periodi più o meno brevi, per Leonardo e Jacopo, per il lavoro, per gli amici, per le periodiche pratiche burocratiche, ecc. ecc. cercando ogni volta di mettere un po’ tutto insieme.
Dal maggio di due anni fa ogni giorno mi sono guardato intorno chiedendomi se mi piacesse vivere di nuovo a Massa Marittima, questo posto, deserto o quasi d’inverno, poche vetrine accese, i bar chiusi, non proprio comodo semmai ci fosse il bisogno di una qualche cura medica al di sopra di una media necessità, insomma la condizione di gran parte dei piccoli Comuni d’Italia.
Ogni giorno mi sono risposto di si, che mi piaceva viverci, anche in questo letargo artificiale in cui entra dai primi di ottobre fino alla prossimità della Pasqua, ancora di più in questi ultimi due anni, segnati come sono stati, con le relazioni sociali ridotte al minimo per tratti di tempo anche molto lunghi, tempo che invece ho trascorso come vivessi una lunga vigilia di quei giorni in cui, dalla metà di giugno e per i tre mesi seguenti, ai miei occhi Massa è sempre sembrata il Paese dei balocchi.
Non è il massimo dite? Si, per certi versi è vero, tuttavia mi conosco abbastanza da sapere che non amo la solitudine ma neppure la temo e poi è anche vero che, a differenza di anni fa, nel corso dell’inverno alcune associazioni si incontrano periodicamente per preparare le iniziative che caratterizzano questo periodo e così ecco Halloween che quasi trasforma il centro storico in un set cinematografico a tema horror, poi le iniziative di Natale lunghe un mese e subito dopo il carnevale e in quattro e quattr’otto l’inverno è passato. Forse manca il coinvolgimento di una più ampia fetta della cittadinanza? Forse le associazioni, come tutte le associazioni, diventano delle grandi famiglie dove non è semplice entrare? Forse si, ma credo che per chi fa le cose un posto possa esserci sempre.
Dopo trent’anni durante i quali ho vissuto via da qui, ho iniziato a ritrovare tutti i legami lasciati in sospeso tanto che a un certo punto ho pensato “accidenti! mi stava aspettando tutto questo e io per più della metà della mia vita non me ne sono accorto…”.
E i nuovi legami, altre persone, alcune delle quali davvero straordinarie che sono fortunato ad averle incontrate, altre opportunità, paesaggi rivisti dopo decenni o mai visti prima e anche lì con groppo in gola, e questa volta dall’emozione, fermo al lato della strada con gli occhi spalancati, non dal dolore come nei giorni nel pieno della pandemia.
È il desiderio di proseguire su questa vecchia nuova strada, riprendere un percorso interrotto molto tempo fa, consapevole di cosa c’è stato in mezzo, cosciente che né io, né le persone, né i luoghi sono più gli stessi, ma con la volontà di esserci, di partecipare, di portare con me un bagaglio costruito in tanti anni che mi ha dato tantissimo dal punto di vista umano, affettivo e professionale, ancora attaccato a una madre putativa, Bologna, e quella naturale rappresentata delle mie radici, Massa e, cosa più importante di tutte, con entrambe ho iniziato a far pace.
Mi ci sono trovato quasi per caso, all’inizio l’ho subìto, poi l’ho voluto, cercando di assecondarlo e adesso ci sono: il paradigma è cambiato e adesso lo devo governare.